sabato 29 giugno 2013

Fotografia post mortem

Esempio di fotografia post mortem
Le fotografie post mortem, altrimenti conosciute come memento mori, furono una pratica ampiamente diffusa durante l’epoca vittoriana.
Prima dell’invenzione del dagherrotipo, avvenuta nel 1839, l’unica via per tramandare negli anni l’immagine di una persona era quella di farsi fare un ritratto, ma, poiché ciò era assai dispendioso, erano poche le persone che potevano permetterselo. Dopo la nascita della fotografia, la gente iniziò a fotografare i propri cari ormai spirati, in modo da mantenerne un ricordo indelebile. Essi però, spesso non si accontentavano di ritrarre il defunto nella tipica posizione supina, ma addirittura disponevano il corpo in modo che sembrasse vivo, con gli occhi aperti o come se stesse svolgendo una qualsiasi azione quotidiana.
Questa pratica andò diffondendosi anche a causa dell’altissimo tasso di mortalità infantile presente all’epoca, non di rado, infatti, vediamo ritratti dei bambini o dei neonati. In molti casi, questa era l’unica fotografia che li rappresentava.
A livello stilistico, le prime fotografie post mortem raffiguravano unicamente il viso o il busto del defunto. Dal 1840 al 1860 si soleva rappresentare il cadavere su un divano, con gli occhi chiusi e la testa appoggiata ad un cuscino, come se fosse stato addormentato. Negli anni successivi, il corpo veniva posto solitamente su una sedia, con gli occhi aperti, e, per rendere le foto ancora più realistiche, spesso si dipingevano le guance del defunto di un rosa acceso, in modo che sembrasse vivo. Successivamente, invece, le foto si limitarono a ritrarre il soggetto adagiato nella bara, senza nemmeno cercare di dare l’illusione di una qualche vitalità.

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