sabato 29 giugno 2013

Introduzione

Nel mio percorso tematico, dal titolo “Il ricordo della vita, la memoria della morte”, mi sono proposta di analizzare il concetto di morte prestando particolare attenzione alle reazioni che esso suscita nell’individuo, al modo in cui si ricorda la persona o le persone defunte. Ho scelto questa impostazione poiché mi sento particolarmente sensibile sull’argomento e, secondo il mio parere, esso è anche particolarmente interessante in quanto nessun uomo riesce a farne esperienza diretta. E’ di conseguenza una tematica che mi affascina molto, proprio a causa della sua componente tragica e dell’alone di mistero da cui è avvolta. 

Ho esaminato, come nel caso di Edvard Munch e di Eugenio Montale, il concetto di morte in un ambito molto personale, come, appunto, la perdita dei familiari o quella della persona amata. Essi, sia con forme artistiche differenti, rispettivamente la pittura e la poesia, espressero il ricordo di coloro venuti a mancare, chi con inquietudine e turbamento, chi con dolcezza e malinconia. Analogamente agiva la fotografia durante l’epoca vittoriana. Si diffusero in questo periodo le foto post-mortem, grazie a cui i vivi riuscivano a conservare l’immagine del defunto e con essa il suo ricordo. Ho rivolto poi la mia attenzione ad un aspetto più generale, ovvero la morte collettiva, di cui abbiamo come massimo esempio il genocidio del popolo ebraico, che viene ricordato universalmente. A conclusione di tutto ciò ho trattato la visione assolutamente pessimistica del filosofo Schopenhauer che considerava la vita un processo dominato dal dolore, che non aveva altri fini se non quello di condurre alla morte.

Fotografia post mortem

Esempio di fotografia post mortem
Le fotografie post mortem, altrimenti conosciute come memento mori, furono una pratica ampiamente diffusa durante l’epoca vittoriana.
Prima dell’invenzione del dagherrotipo, avvenuta nel 1839, l’unica via per tramandare negli anni l’immagine di una persona era quella di farsi fare un ritratto, ma, poiché ciò era assai dispendioso, erano poche le persone che potevano permetterselo. Dopo la nascita della fotografia, la gente iniziò a fotografare i propri cari ormai spirati, in modo da mantenerne un ricordo indelebile. Essi però, spesso non si accontentavano di ritrarre il defunto nella tipica posizione supina, ma addirittura disponevano il corpo in modo che sembrasse vivo, con gli occhi aperti o come se stesse svolgendo una qualsiasi azione quotidiana.
Questa pratica andò diffondendosi anche a causa dell’altissimo tasso di mortalità infantile presente all’epoca, non di rado, infatti, vediamo ritratti dei bambini o dei neonati. In molti casi, questa era l’unica fotografia che li rappresentava.
A livello stilistico, le prime fotografie post mortem raffiguravano unicamente il viso o il busto del defunto. Dal 1840 al 1860 si soleva rappresentare il cadavere su un divano, con gli occhi chiusi e la testa appoggiata ad un cuscino, come se fosse stato addormentato. Negli anni successivi, il corpo veniva posto solitamente su una sedia, con gli occhi aperti, e, per rendere le foto ancora più realistiche, spesso si dipingevano le guance del defunto di un rosa acceso, in modo che sembrasse vivo. Successivamente, invece, le foto si limitarono a ritrarre il soggetto adagiato nella bara, senza nemmeno cercare di dare l’illusione di una qualche vitalità.

Edvard Munch: il ricordo di una famiglia

Edvard Munch (1863-1944) è un pittore norvegese, importante precursore della corrente artistica dell’espressionismo. Munch visse una vita tragica, che influenzerà pesantemente il suo pensiero e il suo modo di fare pittura. I principali temi da lui trattati sono l’angoscia, il male di vivere e la morte. Quest’ultima in particolare accompagnerà l’intero arco della sua esistenza: egli viene difatti a contatto con essa già durante l’infanzia, quando, a soli cinque anni, assiste alla morte della madre e, successivamente, alla morte della sorella Sophie, causata dalla tubercolosi.
Nel dipingere i suoi quadri egli si allontana progressivamente dal realismo, utilizzando una tecnica piuttosto nervosa. Tra le sue maggiori fonti abbiamo l’Art noveau, la pittura simbolista e i pittori post- impressionisti (Van Gogh, Toulouse-Lautrec, Gaugin). Utilizza colori evocativi, stesi con pennellate lunghe, ondulate e ripetute, talvolta apparentemente trascurate. Anticipa l’espressionismo per diversi aspetti: la tendenza a fare aloni intorno alle teste dei personaggi per indicarne lo stato d’ansia, i cieli rossastri che simboleggiano la pazzia, le fughe prospettiche vertiginose che indicano il desiderio di evasione e i confini ambigui tra figura e sfondo per esaltare il contatto con la realtà interiore.

Bambina malata, 1885-1886, olio su tela, Oslo Galleria Nazionale
                                                            
Bambina malata
Nonostante non sia la sua opera più famosa, Bambina malata è il dipinto senza dubbio più vissuto e sentito da Munch, tanto che è considerato la matrice di tutto ciò che produrrà in seguito. Addirittura, secondo alcuni critici, “questo quadro è la ragione stessa della sua pittura, forse Munch è diventato pittore solo per riuscire a dipingere l’agonia della sorella Sophie”. Esistono difatti cinque versioni del dipinto e diverse variazioni grafiche, specialmente litografie, di cui si è perso il conto.
Appunto, in quest’opera Munch affronta il tema dell’angoscia per la morte, ricordando la prematura scomparsa della sorella Sophie, appena quindicenne, evento che lascio un segno indelebile nella vita del pittore, egli affermò difatti “che nessun pittore ha probabilmente vissuto il suo tema fino all’ultimo grido di dolore come me quando ho dipinto la Bambina malata.
La scena rappresenta una ragazza dai capelli rossi, seduta nel letto, appoggiata con le spalle a un grosso cuscino bianco. La pelle di questa è estremamente pallida, quasi trasparente, che, insieme al chiarore del cuscino, sono le uniche fonti di luce della composizione. Accanto al letto, vi è una figura femminile (che potrebbe essere la madre rappresentata sotto forma di ricordo) ripiegata su sé stessa che soffre a causa della morte imminente della malata, mentre quest’ultima, assume un atteggiamento di quieto distacco, di accettazione del suo destino. Le due sono unite dal gesto delle mani che si stringono a vicenda, tuttavia queste sembrano quasi cancellate, come se quel gesto fosse stato consumato dalla sua impotenza a trattenere. L’intreccio di queste mani non è casuale, ricade perfettamente all’incrocio delle due ipotetiche diagonali della composizione. L’ambiente in cui si svolge la scena è angusto, si riesce quasi a cogliere la pesantezza dell’aria, proprio perché Munch vuole metterci in stretto contatto con la malattia e la sua esperienza di quell’accadimento. Nella stanza sono presenti inoltre alcuni elementi simbolo che rappresentano il presagio della morte, come ad esempio il bicchiere pieno a metà o la tenda parzialmente scostata che scopre solo un angolo della finestra. La critica non accoglie l’opera in maniera positiva a causa dello stile innovativo e antiaccademico. Munch difatti sostituisce alla descrizione realistica dei corpi dei semplici abbozzi di colore, trasgredendo tutte le convenzioni riguardanti il disegno e la luce. La superficie della tela appare graffiata, raschiata, ripresa più volte, mentre le linee verticali richiamano le sopracciglia del pittore. Egli non vuole fornirci una rappresentazione fedele alla realtà, ma vuole raffigurare, attraverso personaggi, oggetti e paesaggi, il sentimento, le passioni e l’angoscia.

Morte nella camera della malata, 1895, tempera e pastello su tela, Oslo Galleria Nazionale
                                               
Morte nella camera della malata
Anche in questa tela Munch rappresenta l’agonia della sorella Sophie, ma stavolta vista attraverso il dolore dei familiari, riuniti intorno al suo letto di morte, tra i quali possiamo scorgere anche l’autoritratto dell’artista, l’uomo in primo piano girato di spalle. Sophie è seduta di spalle su una sedia dall’alto schienale, che le facilitava la respirazione, anche se la sua persona rimane così quasi totalmente nascosta, a eccezione del braccio sinistro. La donna in piedi accanto a lei è probabilmente la zia Karen, che aveva curato i bambini dopo la morte della madre; l’uomo anziano girato verso lo spettatore è invece il padre, che piega il volto cingendosi le mani. In fondo a sinistra abbiamo invece il fratello Andreas, che morirà anch’esso anni dopo di polmonite, che si appoggia al muro, affranto. Le due donne sono Laura, seduta con le mani giunte, e Inger, che guarda lo spettatore con uno sguardo fisso, assente. Inger, con il volto scarno e gli occhi gonfi di pianto è l’unica figura che stabilisce un contatto con l’osservatore, mentre le altre persone sono silenziose, senza volto, proprio per sottolineare l’incomunicabilità del dolore. Il dolore non unifica i personaggi, ma li distanzia: ognuno è difatti chiuso nel proprio sentimento che lo consuma. Munch non vuole rappresentare la morte fisica, ma il senso di disperazione che pervade ogni membro della famiglia. L’ambiente suggerisce questa idea di solitudine e di separazione a causa delle superfici vuote del pavimento e del muro. Questa tela vuole essere una sorta di messa in scena del ricordo, le figure sono rappresentate all’età che avevano all’epoca dell’esecuzione del dipinto, non dell’accadimento. Questo per simboleggiare che il dramma familiare raffigurato lascerà per sempre il segno nella vita di ciascun membro della famiglia.

La madre morta e la bambina, 1897-1899, olio su tela, Oslo Munch Museet
                                  
La madre morta e la bambina
In questa tela Munch rappresenta la morte della madre, avvenuta quando l’artista aveva solo 5 anni. Sullo sfondo della scena vi sono i parenti, a sinistra scorgiamo le sagome di due donne, Inger e Laura, mentre di fianco, oltre alla figura di Munch stesso, vi sono anche il padre e il fratello Andreas, entrambi ormai deceduti rispetto agli anni in cui venne realizzata l’opera. Proprio per questo motivo i personaggi sullo sfondo sono rappresentati in bianco e nero, come per alludere alla loro condizione, come se fossero fantasmi. Vi è però un eccezione: sebbene pure la sorella Sophie fosse già morta, viene rappresentata in primo piano, con abiti e capelli dai colori accesi. La sua figura viene quasi inglobata dal letto della madre, a causa della presenza di un alone rosso sul pavimento, della stessa tonalità del vestito della bambina. La madre, distesa nel letto con gli occhi chiusi, è appena abbozzata e ha la funzione di separazione tra i due piani.
Rimane Sophie la vera protagonista della scena: essa si gira verso lo spettatore con occhi sbarrati, portando le mani alle orecchie, stesso gesto che troviamo nell’opera più conosciuta di Munch, “Il grido”. La bambina cerca di tapparsi le orecchie per difendersi dal rumore interiore provocato dal dolore per la morte.

Eugenio Montale: il ricordo della "Mosca"

Eugenio Montale e la moglie Drusilla Tanzi, detta la " Mosca"


Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale


Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.


La poesia, composta nel novembre del 1967, è contenuta nella raccolta Satura, che comprende poesie scritte appunto tra il 1962 e il 1970, ed è tratta dalla sezione Xenia (Xenia II, 5), dedicata alla malinconica e dolce rievocazione della moglie del poeta, Drusilla Tanzi, morta nel 1963, dopo solo un anno dal matrimonio, la quale torna alla mente del poeta per la sua semplicità e voglia di vivere. Col termine “Xenia”, nella tradizione classica, s'indicavano i brevi componimenti, detti epigrammi, che accompagnavano i doni fatti ad un ospite nel momento in cui lasciava la casa che lo aveva accolto e così Montale, attraverso questa raccolta di brevi poesie, intende fare un pensiero alla moglie nel momento della sua partenza senza ritorno.

In questa poesia, in cui l'autore traccia con tenerezza la figura della moglie in una dimensione di quotidianità, la scala e il viaggio diventano metafore di vita. Il poeta, che ha sceso le scale con la moglie, cioè ha condiviso con lei le difficoltà quotidiane nel viaggio della vita per tanto tempo (ma un tempo esistenziale comunque sentito come breve), ora, rimasto solo, ne sente terribilmente la mancanza, prova un grande senso di vuoto perché ha perduto un punto di riferimento fondamentale della sua vita.
Il poeta, che apparentemente aveva fatto da guida alla moglie, affetta da una forte miopia, porgendole il braccio, si accorge e diviene consapevole di essere stato guidato; il gesto del “dare il braccio” alla moglie, presupponeva che fosse lei a essere più bisognosa di una guida, di un aiuto. Tuttavia, nel percorso della vita era il poeta a sentire il supporto indispensabile della sua profonda capacità di vedere, dietro le apparenze; dunque le "vere pupille" erano state le sue.
In realtà era la Mosca (questo il nomignolo attribuitole scherzosamente dagli amici per le spesse lenti) a fargli da guida, perché i suoi occhi, benché offuscati, erano gli unici a saper vedere, a cogliere il senso profondo del reale. Vivendo con lei, il poeta ha preso consapevolezza di questa verità, ha conquistato la capacità di vedere, non teme più gli inganni, gli insuccessi, le banali preoccupazioni della vita, che gli appaiono ormai privi di significato. Al viaggio che il poeta continua a compiere non servono e non capitano più coincidenze o prenotazioni. La realtà non è quella che si vede con gli occhi e si percepisce con i sensi, fatta d’impegni e casualità (coincidenze e prenotazioni), insidie e delusioni (trappole e scorni), ma è qualcosa che va al di là delle apparenze e resta misterioso per l'uomo. Resta, però, il vuoto. Un vuoto che aumenta a ogni gradino, seppure sorretto dal ricordo vivido e dalla più sentita riconoscenza.
Dal punto di vista stilistico-espressivo, la lirica, in versi liberi, si avvale di un linguaggio usuale e quotidiano, che è funzionale al tema domestico e privato, e contribuisce al tono dimesso e malinconico dell'insieme.



Avevamo studiato per l'aldilà


Avevamo studiato per l'aldilà
un fischio,un segno di riconoscimento.
Mi provo a modularlo nella speranza
che tutti siamo già morti senza saperlo.


Il componimento, il quarto della prima sezione degli Xenia, ha la forma di un dolce e malinconico epigramma dedicato, come gli altri, al ricordo e al difficile colloquio con la moglie da poco scomparsa, alla quale egli offre il dono, solo apparentemente minimo, della sua poesia.
Il poeta rievoca una specie di scherzo concordato assieme alla moglie: i due avevano immaginato di poter comunicare anche dopo la morte per mezzo di qualche segnale particolare. Adesso dopo la scomparsa della Mosca, il poeta prova a modularlo.

Questo tentativo è innanzitutto un sintomo di rimpianto per la moglie morta. Ma la poesia fornisce per il gesto di Montale un’implicazione più profonda, ovvero la speranza (espressa con ironia) che tutti siamo già morti senza saperlo. Si esprime qui la prospettiva del rovescio, tipica dell’ultima stagione della poetica di Montale.

L’ironia del poeta dà adito a due possibili ipotesi:
- egli forse, vuole dirci che non c’è alcun aldilà, alcuna possibilità effettiva di rincontrare la moglie.
- o forse pensa che aldilà e aldiqua sono termini intercambiabili e che il mistero coinvolge non solo la vita oltre la morte, ma innanzitutto questa vita, della quale non sappiamo nulla. 

"Shoah", il ricordo di un'intera popolazione

         
Tipica "divisa" indossata dai prigionieri dei campi di concentramento
Parlare di Shoah o di Olocausto significa parlare dello sterminio sistematico ad opera dei nazisti di milioni di Ebrei che avvenne in Europa durante la Seconda Guerra Mondiale, un genocidio che coinvolse circa 6 milioni di Ebrei.
La distruzione di circa i due terzi degli Ebrei d'Europa venne organizzata e portata a termine dalla Germania nazista mediante un complesso apparato amministrativo, economico e militare, con uno sviluppo progressivo che ebbe inizio nel 1933 con la segregazione degli Ebrei tedeschi, proseguì, estendendosi a tutta l'Europa occupata dal Terzo Reich durante la seconda guerra mondiale, con il concentramento e la deportazione e quindi culminò dal 1941 con lo sterminio fisico per mezzo di eccidi di massa sul territorio da parte di reparti speciali e soprattutto in strutture di annientamento appositamente predisposte (campi di sterminio).

Olocausto e Shoah
La parola "Olocausto" deriva dal greco ὁλόκαυστος (olokaustos, "bruciato interamente") e stava ad indicare un tipo di sacrificio religioso in cui il corpo della vittima animale, dopo l'uccisione, veniva bruciato completamente, così che nessuna parte commestibile poteva essere consumata.
A causa del significato religioso del termine, alcuni, ebrei ma non solo, trovano inappropriato l'uso di tale termine: costoro giudicano offensivo paragonare o associare l'uccisione di milioni di Ebrei a una "offerta a Dio". Più recentemente, quindi, per descrivere la tragedia ebraica di quel periodo storico, è stato adottato il termine “Shoah”, che significa "desolazione, catastrofe, disastro".
Politica razziale nazista

La politica razziale nazista, che trova le sue basi nelle teorie espresse già nel 1925 nel Mein Kampf, si evolvette progressivamente negli anni compresi tra il 1933 e il 1939. Il partito nazista divenne sempre più radicale nelle sue posizioni per il trattamento delle minoranze in Germania, in special modo nei confronti degli Ebrei.
Gli Ebrei erano allora in Germania una ristretta minoranza: circa 500.000 su una popolazione di oltre 60 milioni di abitanti. Ma, diversamente da quanto accadeva nei paesi dell'Europa orientale, erano concentrati in prevalenza nelle grandi città e, pur non facendo parte della classe dirigente tradizionale, occupavano le zone medio- alte della scala sociale: erano per lo più commercianti, liberi professionisti (un terzo dei medici e degli avvocati delle grandi città erano ebrei), intellettuali e artisti; parecchi avevano posizioni di prestigio nell'industria e nell'alta finanza.
Nei confronti di questa minoranza attivamente inserita nella comunità nazionale (oltre 100.000 Ebrei avevano combattuto nell'esercito tedesco durante la prima guerra mondiale), la propaganda nazista riuscì a risvegliare quei sentimenti di ostilità – contro la diversità etnica e religiosa e contro il presunto privilegio economico – che erano largamente diffusi, soprattutto fra le classi popolari, in tutta l'Europa centro-orientale.
La persecuzione fu ufficialmente sancita nel 1935 a Norimberga, quando vennero annunciate due nuove leggi che presero il nome, appunto, di leggi di Norimberga.
  • La prima, la legge sulla cittadinanza del Reich, negava agli Ebrei la cittadinanza germanica. Questo comportò la perdita di tutti i diritti garantiti ai cittadini come, ad esempio, il diritto di voto.
  • La seconda, la legge per la protezione del sangue e dell'onore tedesco, proibiva i matrimoni e le convivenze tra "ebrei" e “tedeschi”.

Sulla base di queste leggi fondamentali l'apparato politico-amministrativo del Reich sviluppò una lunga serie di nuove disposizioni e decreti che delinearono la cosiddetta "soluzione economica del problema ebraico", attraverso le cessioni o vendite delle attività ebraiche autonome, dei servizi, delle attività industriali e commerciali, dei valori mobili, delle terre e altri beni immobiliari.
Violenze ed emigrazione forzata

Le politiche antiebraiche della Germania nazista ebbero una svolta nel novembre 1938, quando, traendo pretesto dall'uccisione di un diplomatico tedesco a Parigi per mano di un ebreo, i nazisti organizzarono in tutta la Germania un gigantesco pogrom passato alla storia con il nome di «Notte dei cristalli». Ingenti furono i danni materiali (815 negozi distrutti, 171 case incendiate, 191 sinagoghe bruciate); inoltre 36 ebrei vennero uccisi, 36 gravemente feriti e oltre 20.000 deportati verso i campi di concentramento che erano stati creati da poco: 10.911 a Dachau (provenienti da Germania meridionale e Austria), 9.828 a Buchenwald (Germania centrale) e più di 6.000 a Sachsenhausen (Germania settentrionale).

Progetti di deportazione e ghettizzazione

Fotografia scatta nel ghetto di Varsavia, Polonia
L'inizio della seconda guerra mondiale e l'invasione della Polonia provocarono un radicale cambiamento della "questione ebraica" e l'attivazione da parte del Reich di nuove iniziative sempre più dure. Inizialmente, si ritenne necessario concentrare gli Ebrei in pochi centri urbani di raccolta secondo lo schema del ghetto, tra cui il più famoso è quello di Varsavia.
La vita degli Ebrei in queste aree totalmente isolate e sovraffollate divenne estremamente difficile: la fame e le malattie provocarono tassi di mortalità elevatissimi. Inoltre gli Ebrei dei ghetti vennero sfruttati nel lavoro coatto al servizio dell'apparato produttivo del Reich. In diversi ghetti la resistenza organizzò delle rivolte: quella del ghetto di Varsavia si protrasse per quarantadue giorni; il 16 maggio del 1943, tuttavia, della città non rimaneva che un cumulo di macerie.
La vittoria tedesca sul fronte occidentale dell'estate 1940 sembrò aprire prospettive di potere mondiale per il Terzo Reich e in questo contesto emersero nuovi progetti territoriali per risolvere il "problema" degli Ebrei d'Europa. Si passò da un piano di deportazione di tutti gli Ebrei in una non meglio precisata "colonia in Africa o altrove", all'individuazione del Madagascar, quale luogo dove gli Ebrei avrebbero vissuto sotto sorveglianza tedesca. Gli sviluppi bellici fecero svanire ben presto questi progetti; la crescente resistenza britannica rese del tutto impraticabile un eventuale trasporto via mare in Madagascar, e già prima dell'invasione dell'Unione Sovietica il piano era ormai stato abbandonato da Hitler.
Nei territori sovietici che furono occupati dall'esercito tedesco nei primi mesi dell'invasione risiedevano 4 milioni di Ebrei; circa 1,5 milioni riuscirono a fuggire abbandonando le proprie case e trasferendosi verso est insieme alle truppe sovietiche in ritirata, ma gli altri, concentrati prevalentemente nelle aree urbane, subirono le micidiali conseguenze dell'arrivo dell'invasore tedesco.
A partire dal luglio 1941, infatti, si scatenò nelle terre dell'est un'ondata di violenze, di massacri e di stermini di massa: i compiti venivano svolti con precisione burocratica e con un'attenta pianificazione logistica; le tecniche di sterminio erano standardizzate. Le vittime venivano condotte nei pressi di fossati anticarro o crateri di granata o erano costrette a scavare loro stesse delle fosse; quindi venivano uccise con il fuoco di mitragliatrice o armi leggere; in un secondo tempo si fece ricorso anche ad autocarri a gas provenienti da Berlino che fornirono un servizio mobile di gassazione.

L'internamento nei lager

Campo di sterminio di Auschwitz, Polonia
Il lager, il campo di concentramento, fu il luogo dove si concluse tragicamente la persecuzione nazista degli Ebrei. I campi di concentramento apparvero immediatamente dopo la presa di potere da parte dei nazisti: Dachau, il primo, fu creato da Heinrich Himmler il 20 marzo 1933, quale “campo di custodia” per tutti gli avversari politici del nazionalsocialismo.
Nel 1936 la gestione dei campi venne affidata alle SS di Himmler: da allora divennero efficientissimi luoghi di reclusione e di lavoro forzato per i nemici del regime. Buchenwald, Sachsenhausen, Flossemburg, Ravensbruck, Mauthausen (sorto in Austria dopo l'annessione), Auschwitz (in Polonia): l'intero Reich fu costellato di campi di concentramento.

La soluzione finale

A partire dal 1942 le persecuzioni nei confronti degli Ebrei si intensificarono; prese avvio infatti la cosiddetta “soluzione finale del problema ebraico”: in tutti i paesi d'Europa occupati dai Tedeschi gli Ebrei, già relegati nei ghetti, vennero “rastrellati” sistematicamente per essere avviati in quelli che ormai potevano definirsi veri “campi di sterminio”. Della soluzione finale fu incaricato il colonnello delle SS Adolf Eichmann.
Gli Ebrei venivano registrati, riuniti in immensi campi di raccolta, caricati sui carri bestiame dei convogli e trasportati verso oriente, verso i campi di annientamento di Auschwitz, di Majdanek o di Treblinka.
Le eliminazioni di massa venivano condotte in modo sistematico attraverso metodi sempre più efficienti: dalle fucilazioni, all'uso dello Zyklon – B (acido prussico cristallizzato) di Auschwitz.
Le esecuzioni di massa a mezzo dei gas si protrassero fino alla primavera del 1945, a ritmo sempre più serrato dal 1944, da quando cioè le sorti della guerra avevano cominciato a peggiorare per i Tedeschi ed Hitler si era posto il problema dell'eliminazione dei prigionieri nei lager”.
Negli ultimi giorni di guerra, i tedeschi cercarono di eliminare ogni traccia dei massacri compiuti, dai documenti ai cadaveri, mediante cremazione e dispersione delle ceneri.
La liberazione dei lager nazisti
I militari sovietici furono i primi a liberare i campi più vicini a loro a partire dal luglio del 1944. Nel frattempo le SS avevano cercato di distruggere tutte le prove dello sterminio.
I militari sovietici arrivarono ad Auschwitz, campo di concentramento e di sterminio, nel gennaio del 1945. I tedeschi prima di scappare avevano distrutto i magazzini, ma nella fretta di fuggire erano rimasti intatti quelli che conservavano gli oggetti personali delle persone assassinate: i russi scoprirono centinaia di migliaia di abiti civili da uomo, più di 800.000 vestiti da donna e più di 6.000 chili di capelli.

giovedì 27 giugno 2013

Arthur Schopenhauer: il pessimismo

Arthur Schopenhauer
Il tema della morte è stato oggetto di studio da parte di numerosi filosofi, tra cui, tra i più pessimisti, troviamo Arthur Schopenhauer.

Secondo Schopenhauer la vita è dolore per essenza. Egli afferma che la natura di ogni uomo è dominata dalla volontà e che il volere significa desiderare. Il desiderio implica uno stato di perenne tensione, in cui l’uomo desidera qualcosa che non ha. La tensione è quindi paragonabile al dolore, che pervade l’esistenza dell’individuo. Esso inoltre, è, tra tutte le creature, quella che soffre maggiormente, poiché, essendo dotato di ragione, è consapevole della tragicità della sua condizione.
Il piacere o godimento è invece uno stato temporaneo, effimero. Il filosofo vede infatti il piacere solamente come un intervallo tra vari dolori; proprio per questo si crea un rapporto di stretta dipendenza: se non provassimo sofferenza non potremmo nemmeno provare piacere. Un altro stato conseguente è la noia. La noia si raggiunge quando si riesce a soddisfare un desiderio: inizialmente subentra il piacere, ma in seguito l’individuo perde interesse per la sua conquista, lasciando subentrare la noia.
Per questo Schopenhauer paragona la vita a un pendolo che oscilla incessantemente tra il dolore e la noia, stati intervallati da brevi momenti di piacere.

Tutto soffre. Soffrono le piante, soffrono gli animali, soffre l’uomo. Come già detto, quest’ultimo è tuttavia la creatura che soffre maggiormente, poiché si rende conto della finitezza e precarietà della propria condizione. Schopenhauer quindi, oltre a vedere il mondo dominato dal male, considera il male stesso il fondamento su cui è costruito il mondo. Oltre alla sofferenza a cui sono obbligati tutti gli esseri viventi, un'altra oggettivazione di questo principio maligno è la lotta incessante tra tutti gli individui. Secondo il filosofo, tutti i rapporti, compresi quelli d’amore, sono basati sul tentativo di reciproca sopraffazione. Gli uomini, infatti, sono riuniti in organizzazioni, come lo stato, semplicemente per bisogno, non per naturale socievolezza.

A risoluzione di ciò, Schopenhauer individua un percorso costituito da tre tappe che l’uomo può seguire per giungere alla liberazione.

La prima tappa è costituita dall’arte. L’arte viene vista come la rappresentazione disinteressata delle idee, ovvero i modelli, gli archetipi, secondo cui la volontà si oggettiva. Grazie all’arte, l’uomo contempla la vita, s’innalza al di sopra del dolore, della volontà e del tempo. Tuttavia questa liberazione non è definitiva. L’uomo con l’arte, più che trovare una via per uscire dalla vita, trova semplicemente un conforto ad essa.
La seconda tappa è costituita dalla morale. La morale è un momento positivo, poiché implica il fare del bene verso al prossimo. L’individuo cerca di superare l’egoismo proprio della sua natura e nasce in lui il sentimento di pietà: l’uomo sente come proprie le sofferenze altrui, giunge alla conclusione che, anche se sottoposti a forme di dolore differenti, gli uomini formano un’unica realtà.
L’ultima tappa è costituita dall’ascesi. L’ascesi è l’unico atto di libertà possibile all’uomo e si raggiunge liberandosi dalla volontà di vivere. Con questo Schopenhauer non vuole spingere l’uomo al suicidio, anzi, egli è assolutamente contrario in quanto vede nel suicidio non la liberazione dalla volontà, ma l’affermazione di una volontà molto forte. Con la liberazione dalla volontà di vivere l’individuo si propone di estirpare il proprio desiderio di esistere, di godere e di volere.